IL LATTE SENZA LATTE
(Jennypranz)
Sono un cultore del latte, ma non di quella sostanza bianca e fluida che oggi si spaccia per tale in ogni scaffale del supermercato. Parlo del vero latte, quello che sa di stalla, di mattino presto, di mani ruvide e di vacche che respirano nebbia e fieno. Quel latte che non è soltanto un alimento, ma un atto culturale, una memoria, un’appartenenza.
In Campania, terra dove la tradizione dovrebbe ancora contare qualcosa, il latte ha subito una trasformazione profonda, quasi una mutazione genetica. Una volta era un orgoglio contadino, oggi è un derivato tecnico: standardizzato, sterilizzato, prolungato, impoverito, “riformulato”.
Ho fatto un lavoro meticoloso, da piccolo antropologo del gusto: ho assaggiato, confrontato, annusato, perfino ascoltato il latte. E posso affermare con certezza che le uniche marche che ancora conservano una traccia di verità sono poche: Latte della Centrale di Salerno, Latte Berna e, seppure con qualche esitazione, Latte Nobile. Quest’ultimo sembra aver iniziato il suo lento declino verso l’"acquaticità".
Il Berna resiste. Ma è il latte della Centrale di Salerno che mi riconcilia col mondo: cremoso, fresco, con un profumo che ha il coraggio di esistere.
E qui non posso fare a meno di aprire una parentesi amara. Perché se parliamo di latte vero, di storia, di identità, non si può dimenticare la Centrale del Latte di Napoli.
Quella sì che era un’istituzione. Un latte denso, deciso, con uno stile inconfondibile: le celebri buste piramidali, fredde e affilate, che si aprivano con un taglio di forbici e liberavano un odore di infanzia. Non era solo latte: era cultura quotidiana. Poi l’hanno cancellata. O peggio: inglobata in un’altra azienda, che per rispetto del latte stesso non voglio nemmeno nominare, facendo sparire tutto ciò che rendeva quella produzione unica. Ci hanno rubato un simbolo, e non ce ne siamo nemmeno accorti.
La deriva è iniziata con l’estensione delle scadenze. Ce l’hanno venduta come un trionfo della logistica, dell’Europa, dell’igiene. Ma il latte, signori miei, non è fatto per vivere 15 giorni in frigo. Più si allunga la vita, più si uccide l’anima. E anche le proprietà nutrienti svaniscono: le vitamine, le proteine nobili, il calcio biodisponibile… tutto si affievolisce con ogni trattamento termico. L’ebollizione, poi, è la sua dannazione. Più lo cuoci, più si svuota e più prende quel sapore da “cartone liquido” che niente ha a che fare con il latte.
C’è chi si vanta di bere “latte senza lattosio”, “senza colesterolo”, “senza grassi”. Io dico che siamo arrivati al capolavoro dell’industria alimentare: il "latte senza latte". E nel mezzo di questa decostruzione del gusto, alcune aziende, come Granarolo, per citarne una, hanno giocato per anni col concetto di “fresco”, quando in etichetta la scadenza gridava “prodotto sempiterno”. Fresco? Di cosa?
Il vero latte, quello che rispetto, non ha bisogno di etichette ipocrite. Non vuole vivere per settimane, non si conserva per sempre, non mente sul proprio profumo. Sa di mucca e di prato. Sa di infanzia.
E poi c’è lui, il mio caffè, che stamattina si è rifiutato di mescolarsi a quel liquido pallido comprato per emergenza. Si è mortificato, ha fatto resistenza, come se volesse dire: “Con questo non mi ci sporco neanche il cucchiaino”.
Il latte vero non si beve: si sente, si ascolta, si aspetta. Ti entra nel corpo come una poesia tiepida, ti abbraccia lo stomaco e ti fa respirare più piano.
Io, col latte, ho un rapporto serio. Quasi amoroso. Potrei dire che ho più fiducia in una bottiglia della Centrale di Salerno che in certi contratti firmati.
E se domani sparisse anche quello, potrei solo sperare che qualcuno riesca a mungere ancora la verità da una vacca vera.
