Essere o Esistere: la differenza che ci salva la vita

 


Di un filosofo contemporaneo che abita il dubbio e dialoga col silenzio


Viviamo tempi frenetici in cui tutto scorre come un fiume che non conosce la sorgente. Si respira, si cammina, si producono gesti, si compiono doveri. Ma vivere non è semplicemente essere vivi. Esistere non è sinonimo di essere. E allora, la domanda che forse più ci spaventa è anche la più necessaria: sto solo esistendo o sto davvero vivendo?


Il verbo esistere, dal latino ex-sistere, significa “uscire fuori”, “emergere”. Ma l’essere umano moderno, spesso, emerge solo come un’ombra tra le ombre, nella routine, nella meccanicità di giorni uguali.

 Esiste chi lavora otto ore, consuma cibo, parla di cose qualsiasi, dorme e si sveglia... ma è davvero lì? C’è presenza? C’è radicamento? C’è coscienza?


Esistere può diventare sopravvivere. E in questo sopravvivere — come direbbe Heidegger — ci si dimentica dell’Essere. 

L’uomo, diceva il filosofo tedesco, è l’unico ente che si interroga sul suo essere. Ma spesso smette di farlo, accecato dal rumore, dalla velocità, dalle finzioni del “si dice”, “si fa”, “si deve”.



Essere, al contrario, è abitare la profondità dell'esistenza. Non basta respirare per essere vivi. Essere è scegliere di dare forma alla propria vita. Non subire il giorno, ma ascoltarlo. Non seguire il copione, ma riscriverlo. Non obbedire ciecamente al mondo, ma sentirsi mondo.


Il filosofo Søren Kierkegaard parlava dell’angoscia come vertigine della libertà: solo chi è, prova quell’inquietudine feconda che nasce quando sai che potresti non essere ciò che sei, e che il tuo esistere potrebbe finalmente trasformarsi in un atto autentico.


Chi è, non si nasconde. Chi è, sceglie. Chi è, accetta il rischio del dolore, dell’amore, del cambiamento.



Albert Camus scriveva: “Il vero problema filosofico è il suicidio. Giudicare se la vita valga o meno la pena di essere vissuta.

” Solo chi si pone questa domanda ha iniziato a essere. Chi la rimuove, esiste come un automatismo biologico. La coscienza non è solo sapere di esserci, ma chiedersi “come esserci”.


Nietzsche, con il suo celebre “diventa ciò che sei”, ci invita a scolpire la nostra identità come un’opera d’arte. E allora vivere diventa un atto di volontà estetica, etica, spirituale. Il superuomo nietzschiano non è un tiranno, ma colui che ha il coraggio di diventare l’autore del proprio destino.


La società ama chi esiste senza troppo rumore. Chi produce, consuma, obbedisce. L’essere vero spesso è scomodo: fa domande, si ferma, cambia rotta, rompe i ruoli. 

E così, chi sceglie di vivere pienamente spesso si sente solo. Ma è una solitudine sacra. È la solitudine dell’albero che ha messo radici, del viandante che ha scelto la strada meno battuta.


Come scriveva Simone Weil: “Esiste un solo crimine: quello di non essere.”


Oggi vivere autenticamente è un atto rivoluzionario. È smettere di dire “devo” e iniziare a dire “scelgo”. È ascoltare il proprio silenzio, accogliere la propria ombra, dire “no” dove tutti dicono “sì”. 

È amare profondamente, anche sapendo che l’amore può ferire. È smettere di sopravvivere. È respirare con coscienza. Guardare il cielo e sapere che ogni istante è irripetibile.



Esistono milioni di persone. Ma quanti sono veramente?

Tu che leggi, sei o esisti?

Abiti il tuo corpo o lo trascini?

Senti il peso della tua libertà o ti rifugi nella folla?

Ti auguro una cosa sola, semplice e radicale: che tu scelga di essere.

Perché in quell’essere, anche solo per un istante, la vita si accende. 

E diventa vera


#menacirillo

#consapevolezza