Ieri ho seguito su Canale 21 “Il miracolo di San Gennaro” e mi è nata una riflessione, sotto il cielo di Napoli, tra la luce tremula della Cappella del Tesoro di San Gennaro e le parole ardenti di Don Mimmo Battaglia. Anche se non sono una persona particolarmente religiosa, qualcosa in quell’omelia mi ha raggiunto in profondità.
Il 19 settembre 2025, alle 10:08, il sangue di San Gennaro si è liquefatto nel Duomo, come tradizione. Ma Don Mimmo non si è fermato al miracolo. Ha detto che, idealmente, accanto al sangue del santo avrebbe messo “il sangue dei bambini di Gaza”. Non come paragone vuoto, ma come segno: ogni goccia innocente è sacra, ogni vita spezzata chiede responsabilità.
Ha parlato del sangue come di un linguaggio che tutti capiamo. Come quel dolore che non può essere evitato, come quella preghiera che non si limita a parole, ma pesa sul cuore.
Anche senza credere ho avvertito la sacralità del dolore. Non è religiosità da cerimonia, è dolore abitato.
Ho visto Napoli sospesa tra fede e grida dal mondo, e ho compreso che la fede può essere voce che urla contro l’ingiustizia. Ho sentito che il miracolo non è solo liquefazione di sangue: è quando un cuore si scioglie, quando la pietà diventa azione, quando un empito di solidarietà sfiora la concretezza.
Nel momento in cui Don Mimmo dice “il sangue di ogni bambino di Gaza” accanto all’ampolla del santo, ho provato un nodo alla gola e a stento ho trattenuto le lacrime: per quei bambini, per quelle madri, per quella sofferenza che non è lontana, ma vicina come un’eco che ti entra nelle ossa.
Quel gesto simbolico, mettere idealmente sangue innocente accanto al sangue del martire, importa più del gesto stesso. È riconoscimento che il sacro non è qualcosa di separato dal mondo: il sacro è ogni vita che soffre, ogni bambino che non ha voce.
Ho assorbito che il miracolo vero non è il segno che ci consola, ma la chiamata che non ci lascia in pace. Che guardare il sangue sciolto non serve a salvarsi la domenica, ma a non permettere che domani resti tutto come prima.
Ecco la mia verità interiore. Anche se non credo come chi prega ogni giorno, ieri ho visto una cosa che mi ha scosso: un frammento di cielo che si squarcia quando qualcuno pronuncia i nomi dei bambini che non hanno commesso peccato. Il miracolo non è la reliquia: è ogni gesto di umanità che si rifiuta di chiudersi nel silenzio. È camminare verso chi sta male, non voltarsi dall’altra parte. È fare spazio al pianto, perché da quel pianto possa nascere una parola diversa: pace.
Don Mimmo Battaglia, a cui va la mia stima come religioso e come uomo, mi ha fatto vedere che in un rito millenario c’è spazio per il grido dei più fragili. E che anche io, uomo che non prega, posso sentire la fede come responsabilità, come dolore condiviso, come decisione di non restare spettatore.
Quel sangue sciolto ieri non era soltanto segno: era incanto, era accusa, era promessa. Ed è lì che mi commuovo ed è lì che voglio restare.
(Jennypranz)