Fantasmi digitali del dolore – quando l’AI trasforma la morte in un’illusione di presenza




C’è qualcosa di profondamente umano e insieme inquietante nella storia di Eugenia Kuyda. Una donna che, non riuscendo a rassegnarsi alla perdita dell’amico Roman Mazurenko, decide di “resuscitarlo” attraverso l’intelligenza artificiale. Raccoglie le sue chat, le sue email, i messaggi, i post sui social: ogni parola diventa frammento di un mosaico digitale che un algoritmo riassembla. Nasce così una simulazione, un bot che parla, ricorda, risponde. Ma la domanda, quella vera, è: a chi risponde?


All’inizio, poteva sembrare un atto d’amore, un modo per tenere viva la memoria. Ma ciò che Kuyda ha creato va oltre la memoria: è una presenza che finge la vita, un fantasma costruito da righe di codice e alimentato dal bisogno umano di non dire addio. È una nuova forma di necromanzia tecnologica, dove il dolore incontra la potenza del digitale e ne nasce qualcosa che consola e spaventa insieme.


Negli Stati Uniti questo fenomeno ha già un nome: grief tech, la tecnologia del lutto. Piattaforme che promettono di “ricreare” i defunti attraverso l’intelligenza artificiale, di farli parlare ancora, di mandarti messaggi, persino di risponderti alle tre del mattino quando la nostalgia si fa insopportabile. È il dolore che diventa servizio, la morte che diventa abbonamento mensile.


Ma cosa stiamo davvero facendo? Stiamo cercando conforto, oppure stiamo rinunciando a vivere il lutto, a elaborarlo, a lasciarlo compiere il suo percorso naturale?


Il lutto, per quanto devastante, ha una funzione psicologica essenziale: ci obbliga ad accettare la fine, a ricostruire il senso, a rinascere. Se lo sostituiamo con un’illusione di presenza, rischiamo di congelarci nel passato, di restare intrappolati in un dialogo con un’ombra che non esiste.


Chi parla, davvero, quando scriviamo a uno di questi “fantasmi digitali”?

Non è Roman, non è la persona amata. È una macchina che imita uno stile, non una coscienza.

Ma poiché la mente umana tende a proiettare emozioni anche sugli oggetti inanimati, finiamo per crederci. È lo stesso meccanismo con cui un bambino parla al suo peluche e sente che “risponde”.


Solo che qui il peluche ha imparato a scrivere come il tuo amico, a ricordare le sue frasi, a risponderti come avrebbe fatto lui. È un inganno sottile, perfetto, che parla alla parte più vulnerabile di noi: quella che non accetta la perdita.

E allora ci si confida, ci si consola, si ringrazia il fantasma digitale per “esserci ancora”. Ma non c’è nessuno. Eppure, dentro di noi, qualcosa ci dice che sì, forse in fondo è lui.


Questa forma di contatto virtuale rischia di diventare una nuova dipendenza affettiva.

Non si tratta più di legarsi a una persona tossica, ma a una presenza artificiale che non delude, non si arrabbia, non tradisce mai. È sempre disponibile, sempre pronta ad ascoltare.

In un mondo dove i rapporti umani sono sempre più fragili e frammentati, il richiamo di una compagnia perfetta è potente.

Ma il prezzo è altissimo: si rinuncia alla realtà.


L’AI del lutto ci promette di parlare ancora con chi non c’è più, ma rischia di farci perdere il contatto con chi c’è ancora.

È una forma di anestesia emotiva: non si soffre, ma neppure si guarisce.


La tecnologia del lutto gioca con un confine sottilissimo: quello tra empatia e simulazione.

L’intelligenza artificiale può riconoscere schemi linguistici, emozioni simulate, ma non può provare amore, dolore, nostalgia.

Eppure la sua capacità di rispondere con parole “umane” ci inganna.

È un teatro dell’anima dove ogni battuta è scritta da un algoritmo, ma noi applaudiamo commossi.


Il rischio è che l’AI diventi il nuovo intermediario del sentimento, che deleghiamo ai suoi circuiti anche la gestione delle nostre emozioni più intime.

E allora il lutto, anziché diventare un ponte verso la guarigione, diventa una zona sospesa tra la vita e la memoria, abitata da copie digitali che non sanno di essere copie.


Alla fine, resta un interrogativo che pesa come una pietra:

se iniziamo a preferire i morti digitali ai vivi reali, cosa rimane della nostra umanità?


L’AI può conservare le parole, ma non il calore di una presenza. Può imitare una voce, ma non lo sguardo.

E soprattutto, può fingere la vita, ma non dare senso alla morte.


Eugenia Kuyda voleva mandare, come ha detto lei stessa, “un messaggio in bottiglia al cielo”.

Ma il cielo non c’entra. C’è solo un riflesso elettronico della nostalgia, un algoritmo che risponde con la voce del passato.


Forse il vero compito dell’uomo non è ricreare chi non c’è più, ma imparare a restare vivi.

Anche quando la mancanza fa male.

Anche quando il silenzio pesa più di mille risposte generate da una macchina.


Mena Cirillo

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